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Elle è l’ultimo film di Paul Verhoeven (uscito a dieci anni di distanza da Black Book del 2006) che è stato presentato in Concorso al Festival di Cannes 2016. Nonostante il film abbia vinto prestigiosi premi quali il Golden Globe per il miglior film straniero e per la migliore attrice in un film drammatico a Isabelle Huppert, il Premio César e la nomination agli Oscar, in Italia è stato distribuito soltanto a marzo di quest’anno.   

Il film si apre con lo schermo nero e delle urla e dei gemiti di una donna. La prima immagine del film è quella di un bellissimo gatto grigio certosino, mentre fuori campo si sentono ancora le urla di dolore/piacere. Sono quelli della protagonista Michèle che viene aggredita e violentata, nella sua casa chic e borghese, da un uomo con il passamontagna.

La donna – una imprenditrice che dirige un’azienda di videogiochi – decide di non chiamare la polizia. Essa è scrupolosa, attenta, attraente, severa, cinica. Ed è la figlia di un uomo che quarant’anni prima ha massacrato a colpi d’ascia un’intera comunità. Fuori dal lavoro Michèle intrattiene varie relazioni: vede la stramba ed anziana madre che intrattiene relazioni con ragazzi giovani, l’ex marito scrittore fallito, il figlio che sta per diventare padre di un figlio non suo, l’amante che è allo stesso tempo il compagno della socia. E, forse, in silenzio aspetta che torni il suo stupratore con il quale imposterà un ambiguo gioco di attrazione/repulsione. Il film è una lucida fotografia del mondo contemporaneo, dei tempi che sono cambiati e continuano a cambiare (in modo sempre più accelerato). Un noir erotico che è una perfetta sintesi dei rapporti socio/psicologici dei giorni nostri: il capovolgimento del rapporto dei sessi (emblematico il figlio di Michèle a tal proposito), il destino dei figli degli assassini seriali (sempre più numerosi) le ossessioni e i desideri erotici dei giovani (e non) di oggi.

Anche il cibo diventa un momento “apripista” a qualcosa di agghiacciante che deve accadere.  Quasi una sorta di segnale d’allarme che si rifà al vecchio legame di “amore e morte” già espresso in altri film ormai entrati di diritto nella Storia del cinema come La grande abbuffata di Marco Ferreri. In una delle scene finali, infatti, è proprio il vino a “stordire” il figlio della protagonista e a farlo addormentare. Proprio questo espediente sarà la causa scatenante di ciò che avverrà dopo.

Come ha genialmente intuito Bruno Fornara, il film rimanda per molti aspetti a La règle du jeu del maestro Jean Renoir: «Oggi la regola del gioco è, ancora giocare ogni gioco, nella vita o alla playstation. Il videogioco è infinitamente ripetitivo tanto da sembrare fintamente mai uguale a se stesso pur essendo sempre uguale e sembrando sempre diverso. […] Verhoeven guarda gli umani di oggi con la stessa voglia di ascoltarne le buone ragioni, così come aveva fatto Renoir (e vengono in mente altri nomi, Hitchcock e Chabrol)». Anche in quel film il cibo aveva un ruolo da collante particolare.

 

Alessio Cacciapuoti

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