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Il suo creatore lo definisce un gioco fatto di suggestioni, in cui l’istinto abbina film in cui non è presente il cibo alle gioie del gusto. Un modo nuovo per avvicinarsi alla settima arte e alla tavola che sta sempre più prendendo piede tanto da diventare dei corsi universitari al La Sapienza, al master del Gambero Rosso tenuto all’Università Suor Orsola Benincasa e alla Holden di Alessandro Baricco.

Marco, com’è nata la Cinegustologia?

Da tempo mi sembra che il linguaggio legato alla critica porti a un’assenza di comunicazione, proponendo delle recensioni uguali a sé  stesse e che ha omologato i critici, soprattutto nel settore del cinema e dell’enogastronomia. Mentre il cinema e la tavola sono linguaggi fatti di suggestioni. Inconsciamente definiamo un film partendo dai sensi, dando colore, paragonandolo, così, a un piatto. E’ un gioco genuino, proprio come quelli che facevamo da bambini. Nei giochi ci sono grandi verità e significati profondi. E’ un linguaggio emozionale, nata da un’esigenza di trovare un’altra strada, tirata fuori e incoraggiata anche grazie a qualche prova tra i laboratori con dei giovani ed esperimenti nella stesura degli articoli. Scegliere poi il cinema non poteva che essere una conseguenza. Oltre a essere una mia passione, il cinema è una forma espressiva che riunisce in sé tutte le altre ( dalla letteratura, alla pittura, alla musica, alla fotografia, al teatro, alla danza, all’architettura ) e, quindi, è quella che più d’ogni altra contiene in sé un’infinità di possibili associazioni sinestetiche.

Come la definiresti?

E’ un gioco puramente soggettivo. E’ qui la differenza rispetto agli altri linguaggi che hanno la presunzione di arrivare a un oggettività. E’ come se ci fossero due filtri quello biologico e quello della nostra esperienza. E’ una
modalità soggettiva per raccontare come noi vediamo e sentiamo le cose.

Qual è l’approccio delle persone con la Cinegustologia, partendo dall’esperienza con i ragazzi dell’università e finendo con le persone che partecipano alle cene a tema che sono state organizzate negli ultimi due anni in giro per l’Italia?

Ogni esperienza è varia, ma provando a raggrupparle mi torna sempre in mente la parola gioco. Si tenta di capire le regole. Ci si mette alla prova. C’è molta curiosità. Stupore, perché scardina i meccanismi usuali. Quando si entra nel meccanismo, il divertimento e la serietà si fondono. E’ un’ottima modalità di interazione e che mette in contatto le nostre percezioni a quelle degli altri. Per esempio durante le ultime ceneforum che ho fatto  sulla commedia all’italiana al Cheminée Hotel Business di Napoli tutti intervenivano e interagivano tra loro. E’ stata un’esperienza molto piacevole e goliardica. Il passe par tout è convivialità che poi accomuna sia la tavola che il gioco.

Per coloro che ancora non conoscono questa nuova disciplina, facciamo un esempio pratico di come si caratterizza. Partiamo da un film che è stato di recente in sala, Miele, la pellicola che segna l’esordio alla regia di Valeria Golino.

Difficile, perché è una combinazione di elementi. L’input è determinato dalla sequenza del film che si vede in quel momento, oltre al fatto che giocano come fattori gli stati d’animo che sono presenti in quell’istante. E’ fondamentale puntare sull’immediatezza, altrimenti corre il rischio di cadere di nuovo nella trappola di un linguaggio stantio. Se volessimo partire da Miele, film che affronta il delicato tema dell’eutanasia, direi che ha dalla sua il fatto di non cadere in autocompiacimenti stilistici: anche le inquadrature più ricercate hanno sempre una loro giustificazione semantica, mai sono delle semplici prove di bravura, e questo a dispetto di altri registi che in passato hanno anteposto il proprio ego artistico rispetto allo stesso tema. Per questo Miele mi sembra abbia la stessa semplicità e profondità di un piatto di spaghetti pomodoro e basilico di quelli seri, con pomodori di qualità e olio buono e pasta artigianale. Dove non ci sono effetti speciali, dove si sente l’amaro intenso dell’olio e la sua densità (che sa di problematicità); dove si sente l’acidità del pomodoro insieme alla sua buccia coriacea (che sa ancora di problematicità); ma dove c’è anche la dolcezza della pasta e la freschezza del basilico.

E per l’enologia? Un film come Il discorso del Re di Tom Hooper a cosa si potrebbe accostare?

La classicità ha sempre un valore, soprattutto se rivisitata in chiave moderna, per questo Il discorso del re è un gran bel film. La storia è già potente di per sé, perché racconta di un futuro re, Giorgio VI, che prima di poter essere guida del proprio popolo, quello inglese, nella lotta contro il nazismo, deve riuscire a essere guida di sé stesso. I giorni in cui l’ho visto erano quelli di Identità golose, il congresso enogastronomico di Milano. Di cose buone ne avevo assaggiate parecchie, ma m’è venuto spontaneo associare Il discorso del re al Berlucchi ’61 rosé. Da un lato per la sua aromaticità ed eleganza, che rappresentano il coté sereno del film, quello dei buoni sentimenti; dall’altro perché il suo colore rosa antico m’ha fatto pensare a quel senso del passato che la pellicola comunica con molta tristezza. Infine la sua acidità puntuta e garbatamente maleducata m’è sembrata l’alter ego di quel senso di dolore che ne Il discorso del re attanaglia la vita dei singoli e delle collettività.

Il gioco della Cinegustologia può essere applicato anche partendo da un piatto.

Sì è un gioco biunivoco. Per esempio, poco tempo fa  al Junsei, un Sushi Restaurant di Roma, ho assaggiato  una squisita spigola in salsa di cocco con involtini di frutti di mare che mette insieme la popolare eleganza della spigola, che sa di Campania e di realtà, a questa salsa di cocco, che rimanda invece all’esotico in senso lato. Insieme si crea un mix di dolce e di amaro, di teneramente stopposo e di cremoso, che m’hanno fatto pensare Holy motors, l’ultimo film di Leos Carax appena uscito nelle sale italiane dopo aver partecipato al festival di Cannes 2012.

Per chi volesse approfondire e capire ancora di più cos’è La Cinegustologia esiste anche un libro che hai scritto nel 2009, oltre a uno spazio all’interno de Il Riposo del Guerriero che partirà ad agosto su Radio 24.

Sì, per un primo avvicinamento per comprendere la metodologia, anche se adesso il libro andrebbe aggiornato in base all’esperienze avute con gli incontri e su delle ricerche più approfondite. Mentre la mia partecipazione al Riposo del guerriero è nata prima da un mio intervento che ho fatto in questa trasmissione domenicale condotta da Stefano Gallarini. Da qui è nato un rapporto di amicizia tra  me e Stefano. Per noi due è stato importante che emergesse l’esigenza di liberarsi dalle sovrastrutture e ciò la riportiamo in queste cinque puntate che abbiamo registrato. Il tema di ogni puntata è il colore nel mio spazio di 10 minuti si parte dal colore, per parlare da un piatto e associarla poi anche a un film. Sono venute delle puntate deliranti. In una puntata abbiamo parlato di insalate ed è venuta fuori un’associazione con la cinematografia di un noto regista italiano che scoprirete ascoltando Il Riposo del guerriero.

Antonia Fiorenzano

 

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