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Fortunato Bisaccia era il suo nome ma tutti lo conoscevano come Fortunato o’ Tarallaro. 

Questo ometto piccolo e grassoccio, dalle gambe arcuate e dal volto segnato dalle rughe, è stato uno dei venditori  ambulanti più noti della città partenopea e racchiude l’essenza, la storia e lo spirito di adattamento di un popolo in difficoltà. Pensateci bene. I taralli, questo delizioso impasto di farina, sugna, pepe, ricoperto di mandorle nella parte superiore, sono il tipico esempio di prodotti realizzati a basso costo con un alto apporto calorico. Sono figli della fame, della miseria e della grande creatività dei napoletani in un’epoca in cui vi era la necessità di utilizzare tutte le risorse alimentari di cui si disponeva. Matilde Serao nella sua opera “Il ventre di Napoli” traccia un quadro straordinariamente drammatico della vita dei quartieri popolari nelle vicinanze del porto. Un ventre brulicante di persone affamate e disperate che alla fine del ‘700 si inventarono il tarallo per sopperire alla mancanza di cibo. Presero i ritagli di pasta avanzati dalla produzione del pane, vi aggiunsero la sugna, il pepe (più tardi arriveranno le mandorle) e crearono il cibo per eccellenza dei poveri garantendosi le energie necessarie per affrontare le difficoltà quotidiane.

Furtunat’ tene a’ rrobba bella ‘nzogna‘nzogn”, andava urlando Fortunato per le strade di Napoli a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80. Con il suo piccolo carretto costruito con le sue stesse mani montando una cesta di vimini su un vecchio carrozzino da neonato, Fortunato richiamava l’attenzione per vendere i taralli tra via Toledo, Piazza Carità, vico Giovanni Brombeis, via Conte di Ruvo e piazza Dante. Prodotti conservati con cura e dedizione come se in quella vecchia carrozzina ci fosse davvero una creatura. Fortunato avvolgeva i suoi taralli in una coperta di lana per trattenere il calore e la fragranza e vagava per la città. Le sue grida si diffondevano attraverso i vicoli di Napoli e regalava un sorriso a tutti i passanti. Eppure non aveva avuto una vita facile. Orfano di madre, reduce di guerra, non aveva mai perso il buon umore e la straordinaria vitalità dei napoletani.

Di lui ne ha parlato anche l’attore Massimo Andrei che, in una bellissima biografia edita da Tullio Pironti, ricorda Fortunato come il volto buono di Napoli, un uomo integro ed onesto che nonostante le mille difficoltà non era mai sceso a compromessi con la criminalità e che, spingendo quel suo carretto, raccontava storie, aneddoti, fatti di una Napoli che ieri, come oggi, alza la testa e va dritta per la sua strada.

Oggi la figura del tarallaro non esiste più, si è spenta con Fortunato venuto a mancare nel 1995. Esiste però ancora il buon gusto del tarallo napoletano. Da genere di prima necessità, oggi è diventato uno sfizio da acquistare nei chioschetti a Mergellina e sgranocchiare sul lungomare. La tradizione vuole che si mangino bagnati con l’acqua di mare. Abbandonata questa usanza, oggi il tarallo si accompagna con il vino ma anche con la birra il cui matrimonio sembra funzionare in molti pub della città. L’unica regola è consumarlo ben caldo così da dare la possibilità alla sugna di liberare tutto il suo aroma e alle mandorle tutto il loro sapore.

Annarita Costagliola

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