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merluzzi, esposti notte e giorno ai venti artici. I primi a commercializzarlo furono i vichinghi, seguiti da vari popoli dell’Europa del Nord, fino ad approdare sulle tavole mediterranee dove si guadagnò l’appellativo di “branzino dei poveri”. Del baccalà, difatti, non ne furono apprezzate immediatamente le virtù.

Era  simbolo di secchezza, miseria e povertà al punto tale che la Quaresima, periodo di incontrastabile digiuno, veniva spesso raffigurata come una vecchia magrissima che brandiva uno stoccafisso. È solo a metà Novecento che il baccalà fa il suo ingresso trionfale nella haute cuisine, conquistando i palati più raffinati.  Ma occhio a come cucinarlo!

Innanzitutto occorrono lunghi tempi di ammollo in acqua fredda, da uno a sette giorni, sia per reidratarsi che per scaricare il sale. Una volta ammorbidito, bisogna strizzarlo delicatamente e cucinarlo nei modi più svariati, dalla mantecatura veneta all’umido, dall’abbinamento con le patate alla cottura marchigiana con olive e rosmarino, fino alle pizzette di baccalà fritte al momento alla Boqueria di Barcellona, da mangiare rigorosamente con le mani passeggiando tra i coloratissimi banconi del pesce fresco. Ma, in Campania, il baccalà fritto napoletano non ha rivali ed è un evergreen durante le feste di natalizie, conservando lo status del mangiare democratico.

È facilissimo cedere al profumo irresistibile del “pezzullo” appena fritto e alla croccantezza della leggera e fragrante patina dorata. E’ proprio in questo momento che il fritto diventa magia. E così, il 31 dicembre, rimaniamo letteralmente impalati a bocca e a stomaco aperti, davanti al “pezzullo” fumante. Fermi, come stoccafissi.

Valeria Vanacore

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