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È l’ironia, infatti, la chiave attraverso cui Enzo, Stefano e Cico, i tre protagonisti principali, riescono a sviscerare temi quali l’abbandono, la tolleranza, la dipendenza e soprattutto la diversità. Non è un caso se frasi come “voglio il purè” o la preparazione della pizza di Cico  siano saldamente radicate nell’immaginario comune: un linguaggio che oggi come allora riesce ad avere il coraggio della semplicità, nel trattare temi come il ritardo mentale e nel raccontare la quotidianità di una famiglia non troppo lontana dalla realtà. Enzo l’artista mancato con il vizio del gioco, Stefano perennemente in bilico tra amore e depressione e Cico, il fratello dalla fragile e molteplice identità, che la madre prima di morire protegge con una clausola testamentaria da cui prende le mosse l’intera vicenda: a tutti i fratelli è lasciato l’unico bene immobiliare, la casa in cui sono cresciuti, a patto che non la vendano e vivano sotto lo stesso tetto. Una convivenza forzata da cui parte la storia di una comunicazione mancata, resa possibile dall’accettazione della diversità di Cico e in un cui gioca un ruolo fondamentale il rapporto con il cibo. Quasi una sorta di dichiarazione d’amore d’amore tra i fratelli Righi. Ma non solo.

 Una domanda allo sceneggiatore, più che all’attore. C’è un rapporto molto particolare in questo film con il cibo, non trovi Vincenzo? 

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 V.S. C’era nella commedia teatrale e si è ripresentato nel film perché sono io che ho un particolare rapporto con il cibo, nel senso che è una ragione di vita. Qualcuno sostiene sia un ottimo cuoco, ma diciamo che preparo bene alcune cose. Mi piace particolarmente. E poi la vita è fatta anche di quello.

 Cosa ti aspetti a vent’anni dall’esordio di ...E fuori nevica?

 V. S. Mi piacerebbe avesse lo stesso successo trasversale che ha avuto a teatro. Questo è stato il primo vero lavoro di successo per me e gli altri componenti del cast. E credo che  il film sia adatto a tutte le generazioni. Perché fa ridere ma anche riflettere.

 Maurizio, com’è ritrovarsi dopo vent’anni?

 M. C. È una bella sensazione. Ritrovare delle persone, accorgersi che degli attrezzi – che siamo noi – sono stati messi lì nel cassetto, per anni. Poi riprendi questi attrezzi e sono assolutamente perfetti, non hanno subito alcun cambiamento. Ti viene da pensare che, forse, non è metallo qualunque. Sono pochi quelli che non arrugginiscono e, alcuni di questi, sono preziosi.

 Una scena ormai cult della commedia di vent’anni fa, ripresa nella trasposizione cinematografica, è la preparazione della pizza di Cico. È una metafora per lasciar intendere che alcune cose della tradizione napoletana non possono essere spiegate, ma vanno “sentite”?

M.C. Napoli è una città che ha una cultura che non può essere spiegata, raccontata. La gente del resto d’Italia non può sempre capire cos’è. Napoli anche in senso negativo – certe volte – ma anche in senso positivo, ha dei modi suoi di raccontarsi e bisogna viverla per comprenderla davvero. La cultura della pizza per esempio: ci sono dei pizzaioli a Napoli, cito Sorbillo di cui ho grande stima, per me tra i migliori,  che fanno della pizza una vita. Riguarda la lavorazione, la preparazione, la cura che si ha di questa vera e propria cultura.

La frase cult di Cico è “voglio il purè”. È il momento in cui si concentra tutto l’amore fraterno e si ripete quasi come un rituale: Nando, non credi sia una dichiarazione d’amore non solo ai fratelli, ma anche al cibo?

 N.P. Infatti si dice che urla “e fuori nevica” quando è felice e “voglio il purè”, quando è turbato. Ma il turbamento viene anche dai momenti di profondo affetto che lui prova. Questi personaggi, che non si sa se siano loro i “diversamente abili” o noi quelli considerati “abili diversamente” - è un confine veramente sottilissimo - sono capaci di grandi amori, di sentimenti estremi. Grandi odi non credo, ma per quanto riguarda l’amore, l’affetto, la fratellanza, ne sono i detentori. Sono angeli.

 Potrebbe essere il cibo il canale giusto per sopperire a questa mancanza di comunicazione tra “diversi”?

 N. P. Assolutamente. È un canale comunicativo per unire i cosiddetti “abili” dai “diversamente abili”, perché grazie a Dio mangiamo tutti.

 

 

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