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La felicità è un sistema complesso, l’ultimo film di Gianni Zanasi, con Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston e Hadas Yaron, tratta il difficile tema della crisi dell’imprenditoria italiana ritraendo una serie di sfumature dell’animo umano che definiscono le svariate personalità che abitano il mondo dell’economia senza scrupoli, i suoi squali e le sue vittime. Lo stesso protagonista, Enrico  Giusti, interpretato da Mastandrea, svolge una professione in cui è freddamente il migliore: fa in modo che dirigenti incompetenti e irresponsabili che rischiano di mandare in rovina le imprese che gestiscono, cedano l’azienda, evitando in questo modo il fallimento e la conseguente rovina delle molte famiglie legate all’attività imprenditoriale.

Così, quello che sembra il tema principale – l’economia in crisi – diventa il pretesto per riflettere su ciò che più conta, e che dovrebbe sempre guidare l’azione - l’umanità – e lo fa centrandosi su un avvenimento che mette tutto in discussione, ossia la morte di una coppia di dirigenti di fama internazionale, marito e moglie, che lascia i due figli adolescenti Filippo e Camilla come unici eredi del gruppo industriale di cui erano a capo.

La sensazione che l’intaccabile agire senza scrupoli possa essere messo a dura prova si ha già dall’ingresso sulla scena della ragazza del fratello di Enrico, così imprevedibile, nella sua fragilità che ne costituisce allo stesso tempo la grande forza ed energia, da marcare pesantemente la distanza dal calcolato mondo del protagonista.

È proprio la giovane, interpretata dall’attrice israeliana Hadas Yaron, vincitrice nel 2012 della Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile in La sposa promessa, a mostrare al protagonista l’importanza del sentimento condiviso, concetto che facilmente riporta alla memoria l’etimologia greca della parola simpatia, derivante dall’incontro di sun e pathos, ossia patire insieme.

 Il momento dell’incontro tra la sofferenza dei ragazzini – e in particolare della tredicenne Camilla - e la giovane israeliana, si concretizza nella preparazione di una torta di mele. Il mettere insieme gli ingredienti, in un tempo scandito dall’attesa per la nascita di un prodotto che addolcisce corpo e anima, la condivisione del momento della creazione – che lotta contro il senso di morte che tutto ha fermato – con chi si offre, nella sua presenza fisica, all’ascolto senza pretese, porta le due giovani donne a creare un legame che va oltre le parole. Il tentativo di Enrico di interferire con quell’umanità che si scontra con le regole impietose degli interessi, viene candidamente respinto, determinando l’esclusione dell’uomo da quel momento culinario che non  ha spazio per altro che per  la sincerità cristallina della comprensione.

 “Questa è una torta di noi”, rivendica nel suo italiano stentato la ragazza israeliana per giustificare l’impossibilità di Enrico di aiutarle nella preparazione, smascherando così il tentativo dell’uomo di bloccare la nascita di un legame tra le due. E in quella tenera semplificazione tipica di un modo di esprimersi che è straniero, si sottolinea l’associazione che unisce il dolce, e la sua preparazione, ad un essere parte di qualcosa di più. Un qualcosa di grande, ricco, di cui non si è mai sazi, e che colpirà Enrico dritto in faccia, conducendolo a riscoprire il valore della delicata essenza, che diventerà la base per ridefinire ciò che più conta.

Micole Imperiali 

 

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