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Ma che ore sono???

Guardo il telefono sul comodino di fianco al letto.

Le 7 e 30.

Strano, la nonna la mattina prima delle 8 non si alza, forse stamattina non teneva sonno.

Mi giro dall’altro lato e chiudo gli occhi.

Ma di nuovo quella sequenza, telegrafica, definita, incessante.

Tac, pausa, tac, pausa, tac, pausa, tac, tac, tac.

Tac, pausa, tac, pausa, tac, pausa, tac, tac, tac.

Tramortito dalla curiosità non posso fare a meno di alzarmi e di andare a verificare la situazione.

Mi stropiccio gli occhi e trovo mia nonna seduta vicino al tavolo che sta spezzando gli ziti in una grossa insalatiera.

E quando la nonna spezza gli ziti significa una sola cosa, che a casa mia è la stessa festa di tutte le case napoletane che in quel momento stanno facendo la genovese.

Mi prendo il caffè dalla tazza che sta al solito posto sulla credenza da almeno una quindicina di anni e mi siedo pure io.

La nonna con una mano che non so dove prende, visto che con entrambe sta spezzando gli ziti, mi passa una bustona di cipolle ramate e un coltellaccio da American Psycho e dice “M’arraccumann tagliale bone, nun arrunzà!”, con uno sguardo così severo che Bastianich e Carlo Cracco, se mia nonna va a fare il provino a Sky, devono solo andare a vendere le zeppole e i panzarotti alla notte bianca al Vomero.

Insieme alle cipolle mi da pure una carota e una fronda di “accio”, che è un ortaggio mitologico che esiste solo a Napoli e che in tutto il resto del mondo si chiamerebbe sedano, la guerra con l’etimologia del nome è una guerra che è meglio non fare perché il tempo è prezioso e la nonna già ha messo a rosolare lo spezzatino di carne annecchia dentro alla pentola.

La catena è ben collaudata, sono anni che facciamo la genovese insieme, è una corsa contro il tempo, tutto deve essere pronto per l’una quando mio padre sale e se non è pronto si inizia a sgranocchiare i piedi da sotto la tavola.

La carne è rosolata, le carote e l’accio sono pronte, le cipolle tra la commozione derivante dal taglio mista ai sorrisi e al solito dubbio spasmodico derivante l’attesa, pure sono pronte.

Adesso bisogna solo affogare la carne sotto le cipolle e aspettare, aspettare e aspettare.

Si può leggere un libro, guardare un film, studiare una bolletta vincente o dedicarsi inutilmente alle faccende di casa.

Inutilmente perché la genovese è un’entità ectoplasmica che si insinua ovunque, addosso, nel cuore, sui vestiti, nella pelle, negli indumenti intimi, nei mobili, sulle camicie da stirare, dentro la pezza per lavare a terra e passa sotto lo stipite della porta ed esce fuori al balcone ad accogliere il sole, perché quando c’è la genovese è sempre festa, sempre domenica.

E’ l’una ed è tutto pronto, possiamo calare gli ziti nell’acqua bollente salata.

Non serie A, Champions League.

Mi gusto ogni singolo maccherone e ad ognuno associo un pensiero che deglutisco e mando giù, penso a tutte le genovesi che mia nonna da 85 anni a questa parte ha preparato sempre con la stessa cura, la stessa dedizione, la stessa pazienza.

Quello che proprio non mi riesco a spiegare però, è il motivo dello spezzare gli ziti prima di fare tutto il resto.

Azzuppo l’ultima scorza di pane e comprendo.

Quel rumore meccanico, schizofrenico industriale, quel “tac, pausa, tac, pausa, tac, pausa, tac, tac, tac” doveva essere la mia sveglia di questa domenica, per vedere il sole dopo una settimana di piogge, era il preludio di una domenica speciale, la genovese di questa domenica doveva essere uno dei ricordi che mi porterò di lei.

Tonino Porzio

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