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Che la pubblicità non rispecchi la realtà lo sappiamo da tempo. Nell’universo food, per esempio, i trucchi per far apparire i cibi degni di un dio dell’Olimpo, in modo che l’ipotetico consumatore, solo guardandoli, avverta quel piacevole languorino accompagnato dall’immancabile acquolina che rappresentano il miglior incentivo all’acquisto, sono dei più disparati e di quanto di più lontano ci sia dall’effettiva apparenza degli alimenti.

All’inizio del ‘900 dar forma a cibo finto era Pop Art - Oldenburg è ancora famoso per le sue installazioni di trash food gigante – e oggi in Giappone costituisce un business da miliardi di yen, con riproduzioni che arrivano a costare dieci o persino venti volte di più dei piatti che pubblicizzano.


La nostra è una vera e propria cultura dello sguardo, anche questo è noto, e allora tutto sembra permesso. Ecco quindi che l’olio di motore sui dolci si sostituisce al miele o allo sciroppo risultando più denso, il lucido da scarpe dà un colore più vivido alla carne, la colla e lo shampoo invece del latte rendono più appetitosi i cereali, il deodorante e la lacca spruzzati su frutta e verdura donano un brillio irresistibile, una soluzione chimica conserva le erbe fresche fino al momento del loro utilizzo pubblicitario, i cubetti di plastica prendono il posto di quelli di ghiaccio mentre le gocce d’acqua non sono altro che una mistura di acqua e sciroppo che crea perle simili alla condensa.

Cadiamo nel tranello o le trovate dell’advertising ci risultano curiosità poco credibili di cui sorridere senza troppe riflessioni?

Sta di fatto che la battaglia appare persa: la pubblicità continua a fabbricare bolle di sapone con cui ammaliare il consumatore come il più stolto dei creduloni. Non resta dunque che una cosa da chiedere, ripescando nella memoria una raccolta di poesie di Wystan Hugh Auden, divise tra amore e disonestà: la verità, vi prego, sul cibo.

 

M.I.

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