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Non c’è Pasqua senza colomba. Va avanti così dal 1930 circa, quando in Lombardia fu inventato dall’azienda dolciaria Motta il dolce più amato del periodo pasquale.

Da allora un po’ tutti si sono sbizzarriti nel preparare il soffice dolce a base di farina, uova, burro, zucchero e scorza d’arancia, guarnito dalla classica glassatura alle mandorle.

Oggi la colomba, cugina del conosciutissimo panettone natalizio, viene decantata e rivisitata dai più grandi chef stellati e non, che la arricchiscono di prodotti tipici delle proprie terre.

Basti pensare alle colombe pasquali prodotte in Campania da Alfonso Pepe, Carmen Vecchione, Sal De Riso, Francesco Guida e tanti altri, dove ingredienti quali melanzane, limoni, zucca e tanti altri caratterizzano quelle che sono le colombe “moderne”, forse un tantino distaccate da quelle tradizionali.

Prodotti del genere, dalla lievitazione naturale di ventiquattro ore e dalle qualità eccelse, hanno un costo non proprio competitivo, specie se si considera che la concorrenza, specie in questi periodi festivi, è davvero spietata. Stiamo parlando delle colombe vendute, o svendute, ad un costo che a malapena supera i due euro.

La domanda che un po’ tutti ci poniamo è questa: come può una colomba pasquale di un chilo costare due euro? Come possono, tutti gli ingredienti che compongono una colomba, confezione inclusa, avere il valore di due euro?

La questione è assai delicata e, al contempo, scioccante. Con due euro non si copre il costo della confezione, degli ingredienti, della manodopera, del marketing e della distribuzione.

Il sottocosto dà una immagine assolutamente negativa dell’azienda che, così facendo, non valorizza né il prodotto né chi lo produce.

Il risultato è una colomba anonima, atta a riempire semplicemente la pancia di milioni di italiani che la divorano noncuranti degli ingredienti, molto spesso di bassa qualità, che la compongono.

E voi, cosa ne pensate?

 

Valeria Vanacore

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